La trasmissione delle esperienze e competenze:
le chiavi di successo in un corso di Game Design

Feb 17

Essere “job ready” al termine di un corso di Game Design implica non solo avere solide nozioni tecniche, o una prima e significativa esperienza di sviluppo, ma anche essere stati a stretto contatto con dei formatori dalla professionalità consolidata e con il valore aggiunto di essere in grado di trasmettere agli studenti il loro expertise costruito negli anni, oggi ne parliamo con Matteo Sciutteri.

Game Designer e CEO di RuneHeads, ha girato tutta l’Italia durante la sua carriera, collaborando con molte delle realtà presenti sul territorio.

In Artematica, ha ricoperto il ruolo di Lead Designer. Successivamente è stato Head of Design in Milestone per 8 anni e Creative Director in Dreamslair per 2 anni. Da sei anni ha iniziato a svolgere il ruolo di consulente, collaborando con svariate aziende tra cui Rortos, Reludo, 3D Clouds, Digital Tales, Lunar Great Wall Studios, Badseed solo per citarne alcune. Nel 2017 ha fondato lo studio indipendente RuneHeads.

Da quest’anno è Core Trainer del corso di Game Design della Digital Bros Game Academy

Ciao Matteo e grazie per la tua disponibilità.

Leggendo della tua lunga storia professionale sei ascrivibile indiscutibilmente tra i “pionieri” del game design italiano. Nessuno meglio di te, quindi, può cogliere il valore di quello che è uno degli asset della Digital Bros Game Academy ovvero il learning by doing dato che nella tua esperienza iniziale, assieme a qualche lettura di manuali provenienti dall’estero, è stato l’unico accesso formativo che hai avuto.

Con il senno del poi, oggi qual è il punto di equilibrio tra il learning by doing e la teoria nel processo di formazione di un futuro professionista dei videogames?

Matteo: Direi 50 e 50. Senza la teoria, si rischia di commettere errori su cose banali, o di perdere tempo su problemi noti e già risolti. Studiare i giochi del passato, le soluzioni applicate e i loro risultati (positivi o negativi), ci permette di non reinventare ogni volta la ruota ma di partire dal punto in cui è l’industria oggi e proseguire l’evoluzione del medium. Tuttavia, la sola teoria non basta. Per imparare a fare giochi, bisogna fare giochi. Provare, sbagliare, ritentare. Capire quali processi si possono migliorare per creare l’esperienza di gioco desiderata.

E’ stato un anno operativamente difficile per tutta l’industria dei videogame, nonostante una crescita a due cifre, a causa della pandemia che non ha risparmiato le varie figure dei team di sviluppo e per il lockdown che ha impedito la libera circolazione di professionisti, spesso provenienti da paesi diversi e lontani, fino ad rallentare le localizzazioni che necessitano di una ineludibile copresenza dei doppiatori. Il futuro prossimo, almeno per un altro anno se non di più, prefigura uno scenario non lontano da quello dall’anno appena passato. I professionisti del mondo del videogame, soprattutto nella Game Industry AAA, si sono trovati ad affrontare un intensificarsi anomalo di quello che viene definito “crunch time”, ovvero quella fase finale particolarmente onerosa dello sviluppo finale.

Alla luce delle criticità dello scorso anno come Core Trainer del corso di Game Design, darai al tuo corso una strutturazione operativa, oltre per quanto concerne le attività delle varie fasi sviluppo, con l’obiettivo di arrivare a una fase di pre-rilascio inevitabilmente impegnativa ma non eccessivamente “crunchy”?

Matteo: Il problema che sollevi è delicato e complesso e l’industria stessa sta cercando un modo per poterlo gestire, evolvendo le pipeline e i processi di sviluppo. Per esempio, il crunch, di per sé, non è il male assoluto. C’è un crunch causato dall’errata pianificazione del progetto, c’è il crunch sistematico (messo in bilancio sin dal giorno 0 del progetto), c’è il crunch causato da un’opportunità (positiva) o una difficoltà (negativa) improvvisa, ecc. Insomma, dire “il cruch è il male, togliamo il crunch” non credo sia utile alla discussione e rischia di banalizzarla e renderla alla stregua del tifo sportivo o politico – il nostro mondo, che io sappia, non è bidimensionale (a differenza di quello di molti giochi) e difficilmente si può tirare una linea netta tra bianco e nero. Come Core Trainer, mi sto assicurando che i ragazzi del corso di Game Design capiscano e approfondiscano questo concetto, in maniera matura e affrontandolo nella sua complessità, nelle sue sfaccettature.

Per concludere.

I controller Dual Sense della nuova Playstation 5, che ha una previsione di vendita solo per il 2021 di 18 milioni di pezzi, con i suoi trigger adattivi e il feedback aptico esalteranno l’esperienza sensoriale tattile dei giocatori che già da tempo utilizzano cuffie aptiche e a cui, nell’arco di due anni, verrà offerto un Visore Vr specificatamente pensato per la PS5.

Questa accelerazione repentina dell’esperienza immersiva di gioco, e il suo prevedibile sviluppo, data la vasta diffusione della PS5, lascia prevedere un impatto molto forte su tutte le attività professionali di sviluppo dei videogiochi. Che sfide immagini per i Game Designer che verranno chiamati ad arricchire il gameplay con queste nuove opportunità?

Matteo: Come Game Designer, accolgo sempre con entusiasmo le novità tecnologiche che permettono di esplorare campi e interazioni precluse in passato. Bisogna capire, però, se la tecnologia penetrerà davvero il mercato o se, come tante altre, rimarrà in una nicchia – in passato abbiamo visto come quando i tempi non sono maturi, una tecnologia rischia di restare semplicemente un gimmick. Il feedback aptico è davvero interessante; per quanto riguarda la VR – è tutto tranne che una tecnologia nuova (e in ambiti diversi dal videogioco è anche una tecnologia ormai affermata). Fino ad ora però sono mancate sia la potenza hardware per poterla sfruttare a dovere, sia delle killer application che facciano diventare interessante la VR al mercato di massa. Vediamo se PS5 riuscirà a vincere questa sfida.